Moscato d’Alessandria e Zibibbo: due nomi per indicare lo stesso vitigno. Due nomi che racchiudono una storia antichissima che parte da migliaia di anni fa ed arriva ai giorni nostri sulle dolci note di questo vino straordinario. Uva aromatica coltivata da sempre a Pantelleria, nel libero consorzio comunale di Trapani, e storicamente utilizzata per “addolcire” lieti banchetti. Negli anni è diventato uno dei più famosi vini dolci del mondo, con le sue note di uva passa e frutta secca, scrivendo una delle storie più dolci del nostro Mediterraneo.
Per raccontare la storia del Passito di Pantelleria dobbiamo partire da lontano e, precisamente dall’Egitto, in quanto l’origine di questo vitigno riporta alla città di Alessandria d’Egitto. Testimonianze archeologiche confermano, infatti, che la vinificazione fosse già conosciuta e praticata lungo le rive del Nilo addirittura nel 3000 a.C.
Intorno all’VIII secolo a. C., i Fenici - abili navigatori e “commercianti di mare” – portarono quest’uva nel Mediterraneo, dapprima a Pantelleria e poi nel resto della Sicilia e in Calabria.
Col tempo e con la conquista da parte degli arabi della Sicilia, quest’uva dolcissima, conosciuta come Moscato d’Alessandria, prese il nome di Zibibbo, dall’arabo “Zabīb”, che significa, appunto, “uva passita”.
Ulteriori e più recenti studi fanno risalire il Moscato di Alessandria ad un incrocio naturale tra il Muscat Blanc à Petits Grains (Moscato bianco) e l’Axina de Tres Bias, mostrando un profilo molto simile a varietà greche e instillando il dubbio che possa essere quest’ultima la sua area di provenienza..
Una cosa però è certa: lo Zibibbo continuò a viaggiare lungo il Mediterraneo, acclimatandosi nelle aree più calde e ventilate e raggiungendo anche le coste spagnole. Fu proprio da lì, e in particolare dalla Catalogna, che Ser Alamanno Salviati, nobile fiorentino vissuto tra fine Seicento e inizio Settecento, fece arrivare quest’uva anche in Toscana, prendendo il nome di Salamanna, un sinonimo riportato come tale anche nel Catalogo Nazionale delle varietà di vite. E di uva Salamanna si parla anche in Campania, sopravvissuta, però, solo in vigne di appassionati viticoltori locali sparsi tra la collina di Posillipo, la conca di Agnano e l’area vesuviana.
Sull’isola di Pantelleria ci sono mediamente, ogni anno, solo 500 mm di pioggia e quasi 340 giorni di vento, al punto da meritarsi, da parte degli arabi, l’appellativo di Bent-el-Rhia, “figlia del vento”.
Ciò significa che l’uomo ha da sempre dovuto combattere contro la siccità ed escogitare nuovi metodi di allevamento per difendere la vite.
“Quest’isola nell’isola” dista solo 70 km dalla costa nordafricana e il terreno è prevalentemente sabbioso con una ridotta capacità di trattenere acqua. Ed ecco che interviene l’ingegno umano: un sistema di allevamento ad alberello bassissimo, quasi strisciante, delimitato da conche di muretti a secco per difenderli dal vento. Inoltre, l’idea di lasciare le viti molto basse, fa sì che le foglie, intrecciandosi tra loro fino a terra, formino una protezione naturale contro il vento e la salsedine. Il tronco viene infossato, in modo che possa crescere al di sotto del terreno; in tal modo esso potrà assorbire l’umidità durante la notte e rilasciarla durante il giorno. Proprio questa immensa “ingegneria” vitivinicola ha permesso all’alberello pantesco, nel 2015, di essere riconosciuto dall’UNESCO come Patrimonio Immateriale dell’Umanità, onoreficenza finora mai destinata ad una specifica pratica agronomica.
Sull’isola di Pantelleria vi è una vera e propria unicità: le uve delle zone più precoci sono quelle più mature, mentre nel resto del mondo accade il contrario. L’areale più precoce è situato a nord-est e a nord-ovest, tra Penna e Bukkuram, con un’altitudine che varia da 20 a 200 metri e con elevatissime concentrazioni di zuccheri negli acini. L’areale più tardivo, invece, si trova nelle zone di produzione tra Montagna Grande e Sibà, con altitudini di oltre i 300 metri. Essendo più umide concentrano meno zuccheri e sono maggiormente vocate per le versioni secche.
Quanto alla vinificazione vi è una prima vendemmia nella quale si raccolgono le uve e le si lasciano appassire al sole sui graticci (quelli antichi in pietra, si chiamano “stinitturi”) dai quindici ai trenta giorni; vi è, poi, una seconda vendemmia dalla quale si ottiene il mosto base con una normale vinificazione in bianco. Al mosto verranno poi aggiunti gli acini dei grappoli appassiti, in uno scambio di profumi, aromi e sostanze frutto di una continua fermentazione-macerazione, dove i lieviti non riusciranno mai a trasformare tutto lo zucchero, lasciando nel calice tutta la dolcezza di questa terra!
La DOC è stata istituita nel 1971 e prevede la produzione in tutta l’isola, con il solo utilizzo del vitigno Zibibbo, una resa massima in vino del 40% e un titolo alcolometrico totale minimo del 20%, di cui almeno il 14% svolto.
Il sole della Sicilia nel bicchiere; il tesoro di questa terra che si esprime ai massimi livelli in questo vino già dal colore, tra il dorato e l’ambrato. Il naso regala sentori di frutta secca, fichi, datteri, albicocche e miele. Siamo su terreni vulcanici, circondati dal mare, pertanto la freschezza e la mineralità compensano la dolcezza di questo nettare lasciando la bocca pulita e avvolta da una lunghissima persistenza.
Una vera e propria esplosione; potremmo sintetizzare così le caratteristiche del Passito di Pantelleria che ben si abbina, ovviamente, con i dolci della pasticceria siciliana. Dalla cassata, alle paste di mandorla, fino ai baci panteschi, il dolce tipico dell’isola, frittelle a forma di fiore farcite con ricotta di pecora. Un vino che può essere degustato anche con i grandi formaggi erborinati o diventare, semplicemente, il compagno ideale di qualche ora di meditazione.
Un’isoletta di soli 80 chilometri quadrati; per avere un’idea basta paragonarla con la superficie della Sicilia che è di oltre 25.000. Eppure in un territorio così piccolo si vinifica la storia, conservando ancora gli antichi terrazzamenti, gli oltre 7000 km di muretti a secco e centinaia di “dammusi” (nome legato alle “volte” della struttura), strutture in pietra utilizzate come ristoro durante gli spostamenti e per convogliare l’acqua piovana in una cisterna.
Ecco perché bere un Passito di Pantelleria significa tutelare una storia millenaria e i sacrifici di contadini davvero eroici che - con la schiena curva tra gli alberelli – hanno conquistato il mondo con la dolcezza.