Da Orazio ai giorni nostri: storia e caratteristiche dell’Aglianico del Vulture La viticoltura della Basilicata è legata a filo doppio all’Aglianico che sulle pendici del Monte Vulture si esprime al meglio, regalando grandi emozioni, tutte da bere! Celebrato sin dall’antichità, in tempi più moderni prima dimenticato e poi riportato in auge. La storia di questo grande rosso del Sud ha vissuto momenti difficili, ma anche di grande importanza. Oggi più che mai, grazie alla cura e all’impegno di molti produttori, l’Aglianico del Vulture sta ritrovando il suo posto d’onore tra i grandi vini del panorama italiano.
C’è chi riporta l’etimologia all’antica città di Elea, l’attuale Velia; chi, invece, farebbe discendere il nome “aglianico”, dalla “vitis ellenica” citata dai romani; altri ancora che lo legano alla gens romana "Allia", famiglia di imprenditori edili con vasti possedimenti anche in Lucania, cui fu aggiunto il suffisso “-anicus”, di solito utilizzato per indicare i fondi rustici che avevano derivato il nome dai loro proprietari.
Riuscire a dare una risposta certa e univoca, ormai, sembra sempre più difficile, ma ciò che conta è sapere che quando si dice Aglianico si pensa al Sud, alla Lucania, all’Irpinia. Mi piace pensare che non a caso entrambi i nomi dei due popoli abbiano la loro radice in quel lupo, il “lykos” greco e l'“hirpus” latino, quasi a voler marchiare a fuoco una storia unica e un territorio ampio.
Il Monte Vulture è ormai un vulcano spento, alto più di 1300 metri, ma l’Aglianico proprio qui si esprime al meglio. Allevato anche fino a 700 metri, la produzione maggiore si concentra tra i 300 e i 500 metri, anche per godere della più bilanciata escursione termica e della maggior parte di ore di irraggiamento solare.
Diventato vino DOC nel 1971, la Basilicata ha dovuto aspettare ben 32 anni per ricevere un’altra denominazione: la Terra dell’Alta Val d’Agri. Nel 2010, infine, è stato finalmente riconosciuto l’Aglianico del Vulture Superiore DOCG.
La vendemmia di questo grande vino può giungere anche fino a novembre ed esso non può essere commercializzato prima di un anno dalla raccolta delle uve. Nella versione “Superiore” il disciplinare diventa ancor più stringente, prevedendo che non possa essere immesso sul mercato prima che siano trascorsi tre anni dalla raccolta delle uve, dopo un periodo di affinamento pari ad almeno un anno di botte e ad almeno un anno di bottiglia.
Nella versione “Riserva”, invece, devono trascorrere ben cinque anni dalla produzione delle uve e un periodo di affinamento di almeno due anni in botte e almeno due anni in bottiglia.
Per tutti questi motivi e per la sua struttura, l’Aglianico è stato negli anni soprannominato “il Barolo del Sud”, ma questa similitudine risulta desueta ai più; in primis, perché per molti addetti al settore paragonare una denominazione (Barolo) ad un vitigno (Aglianico) è una contraddizione in termini e poi perché non è più il momento di fare paragoni, in un’epoca in cui sta finalmente “tornando di moda” la terra, con tutte le sue specificità incomparabili e con tutte le sue differenze, a volte visibili nei terreni posti anche a poche decine di metri di distanza.
Basti pensare alla conformazione del Monte Vulture che, nelle sue immediate vicinanze, ritrova tutta la parte occidentale della sua denominazione con i comuni di Barile, Rapolla, Rionero in Vulture, Atella, Ripacandida, Ginestra e Melfi. Parliamo di terreni di chiara origine vulcanica, ma che proprio per questo possono essere molto diversi tra loro, anche a poca distanza. Ciò è dovuto alle diverse epoche di eruzione, alle bocche eruttive che si sono venute a creare, alle altitudini, alle diverse tipologie di eruzioni (effusive o eruttive).
Vi sono poi i comuni di Lavello, Venosa, Maschito, Palazzo San Gervasio, Banzi, Genzano di Lucania, Forenza e Acerenza che ricoprono un areale più vasto e geologicamente diverso, con depositi frutto delle sedimentazioni vulcaniche da trasporto.
Pur nelle varie differenze di stile e di terroir, se volessimo tracciare un profilo abbastanza sintetico dell’Aglianico del Vulture, potremmo dire che si presenta con un rosso rubino molto intenso, spesso impenetrabile, soprattutto nelle versioni giovani, per poi cominciare a regalare diverse sfumature e tendere al granato nelle versioni che maturano un po’ di anni prima in botte e poi in bottiglia.
Al naso si presenta con un corredo aromatico davvero importante, spaziando dalle più immediate note di frutta rossa, come mirtilli, ciliegie e more, e di fiori come la violetta, per poi lasciare spazio alle note balsamiche del mentolo o più speziate della liquirizia e del cioccolato, frutto di una lunga evoluzione.
Al gusto appare evidente, fin da subito, che ci troviamo davvero di fronte a un grande vino. Struttura, corpo, acidità, alcol e trama tannica ingentilita dal passaggio in botte. Sono le caratteristiche di questo grande vino del Sud, al punto da rendersi quanto mai necessaria l’attesa di qualche anno per gustare al meglio e assaporare i suoi caratteri distintivi.
La cucina dell’entroterra lucano si presta benissimo ad essere accompagnata da questo vino: dalla carne di manzo e di agnello, alle minestre, dagli stufati a un saporito e stagionato caciocavallo podolico, senza dimenticare i pecorini di Filiano e Moliterno.
A questo punto non ci resta altro che mettere in pratica le parole del grande poeta romano Orazio (65 a.C. - 8 a.C.), il quale, nato a Venosa, ben conosceva le qualità di questo grande vino, al punto di arrivare a scrivere che «l’Aglianico, misurato col cervello e bevuto con il cuore, dona alla vita conforto, gioia e fiducia». Credo che davvero non possano esserci parole migliori per decidere di bere, stasera stesso, un buon calice di Aglianico del Vulture.